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Dialogo fra uno psicologo e un necroforo

N. "I morti sono quasi tutti brutti, ma ci si fa l'abitudine. Tranne quando sono messi male o quando sono bambini".
P. "Quando la morte è stata violenta e il cadavere ne porta le conseguenze. Ma i bambini morti, se non sono morti in un incidente, sono belli come se dormissero".
N. "Sì, però li devi sempre mettere sottoterra: non si sveglieranno più. E poi potrebbe esserci tuo figlio in quella cassa. Come si fa a sopportarlo?".
P. "Forse solo pensando che quel bambino morto non è tuo figlio. Provi pena per lui che non potrà più vivere e per i suoi genitori che non potranno più toccarlo. Devi pensare che tu non c'entri: perché i tuoi figli sono a casa e sono vivi".
N. "Ma ti viene da pensare che se un bambino è morto, può morire anche tuo figlio. È insopportabile immaginare che tuo figlio potrebbe avere lo stesso destino".
P. "Certo, di fronte ad un bambino morto può nascere il terrore che muoia il proprio bambino, ma è una possibilità che si può ancora evitare: non è più terribile vivere la morte reale di un figlio piuttosto che rendersi conto del fatto che potrebbe accadere?".
N. "Se uno ha un figlio vivo, la cosa peggiore è pensare che possa morire".
P. "Vuol dire, allora, che di fronte ad un bambino morto non si viene colpiti da questo fatto tremendo o dalla compassione verso i genitori, ma viene in mente che potrebbe morire anche il proprio bambino e si ha più compassione per se stessi non essendo più sicuri che il proprio bambino non finisca proprio come il bambino morto".
N. "Ad ognuno importa più dei propri bambini che di quelli degli altri".
P. "Anche quando i propri bambini sono vivi e quelli di qualcun altro sono morti?".
N. "Basterebbe non sapere che il bambino di un altro è morto: non si penserebbe che possa accadere anche al proprio e si starebbe tranquilli. Io i bambini degli altri li devo seppellire, quindi lo vengo a sapere per forza: in questo sta l'aspetto negativo del mio lavoro".
P. "Basterebbe non dover mai seppellire bambini per rendere migliore il suo lavoro di necroforo?".
N. "Proprio così: non ci sono alternative!".
P. "Chi dovrebbe seppellire i bambini, forse gli stessi genitori?".
N. "Potrebbe essere un'idea: se tuo figlio è già morto, doverlo seppellire non aggiunge niente al tuo dolore; forse ti aiuta. Se invece lo deve seppellire un altro che ha figli, egli viene sottoposto ad una violenza che volentieri si risparmierebbe, costringendolo a pensare che anche i suoi figli potrebbero morire".
P. "Non sarà che uno che ha figli ha sempre paura che possano morire, anche se non fa il necroforo, se cioè non ha alcunché che glielo ricordi?".
N. "La paura c'è sempre, ma si cerca di non pensarci. Altrimenti non si vive più".
P. "Si riesce a non pensare all'eventualità che i figli muoiano con la conseguenza di una maggiore tranquillità?".
N. "Proprio così: per non vivere una vita d'inferno si può solo cercare di non pensarci. Se ci si riesce, si riesce a vivere, altrimenti è uno schifo. Io non ci posso riuscire perché dover seppellire i bambini me lo ricorda sempre: la mia vita è uno schifo".
P. "L'Umanità, quindi, dovrebbe evitare di compiere alcuni atti per riuscire a non pensare a ciò che è inaccettabile. Nel caso della morte di bambini una conseguenza inevitabile sarebbe quella di far seppellire ai genitori stessi i propri figli. Ma non sarebbe sufficiente: questi genitori hanno bisogno di parlare con gli altri della morte dei propri figli e così ricorderebbero che anche i figli degli altri possono morire. Bisognerebbe isolare i genitori che hanno perso un bambino e smettere di ascoltarli. Una cosa che spesso si fa per davvero, proprio perché si ritiene che l'unico modo per continuare a non pensare che i bambini possano morire sia non venire a conoscenza della loro morte. I genitori in lutto vengono ghettizzati e ridotti al silenzio. Può andar bene solo quando accade ad altri. Ma se fossimo noi a perdere un bambino e ad essere emarginati?".
N. "C'è la possibilità che qualcuno ascolti i genitori in lutto senza distruggersi?".
P. "Bisognerebbe che qualcuno ce lo insegnasse. Ma noi vogliamo davvero imparare?".
N. "Se me lo insegnassero, mi piacerebbe poter parlare coi genitori in lutto e consolarli. Invece penso che ciò sia impossibile e spero sempre di non dovermi trovare in una simile situazione".
P. "È possibile consolare una madre, ma essa deve scegliersi qualcuno a cui chiedere aiuto e chi viene scelto deve sentire la responsabilità di dare consolazione come più importante della propria esigenza di vincere la paura che i propri figli possano morire".
N. "Io avrei timore di essere scelto per consolare una mamma in lutto".
P. "In realtà la sua reazione non è prevedibile: potrebbe farle così tanta compassione da superare la paura. Le è mai capitato?".
N. "A volte, quando ti guardano come pregandoti di fare tutto tu perché loro non ce la fanno, sembra proprio che ti vogliano chiedere qualcosa. Di solito abbasso lo sguardo e faccio quello che c'è da fare senza cercare di capire più di tanto ciò che vogliono chiedere e sperando che tutto finisca al più presto".
P. "Così, però, non riuscirà mai a consolare. Provi a non abbassare lo sguardo e potrà scoprire che le paure per la propria vita o per i propri figli sono meno intense della commozione per ciò che quella madre sta passando".
N. "Non credo che sopporterei una tale commozione se la sentissi dentro di me".
P. "È qui l'errore: la commozione per l'altro è qualcosa di più sopportabile della commozione per se stessi. Un conto è portarsi a casa un povero, un altro conto è vivere da poveri in casa propria".
 
Francesco Campione

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