- n. 6 - Giugno 2003
- Racconto
ma cum' cazz'è jut; ma cum' cazz'è stat
Il racconto che pubblichiamo in queste pagine ha ricevuto, in occasione del XX Concorso 50 & più del Premio Riva del Garda, una menzione speciale della Giuria con la seguente motivazione: "Finché ci saranno nonni che amano raccontare e nipoti che ascoltano volentieri, i ricordi riusciranno a farci penetrare anche le verità che oggi appaiono più improbabili: per esempio, che non tutti gli uomini migliori desiderano il potere".
All'amico Alfonso De Santis i più calorosi complimenti da tutti noi della redazione e dai 'suoi' lettori che, da sempre, lo seguono con interesse ed affetto. Altri successi ed altri consensi lo attendono non solo per i contributi che, espressi con chiarezza e con coerenza, ogni mese impreziosiscono le pagine di Oltre Magazine, ma anche per questa sua attività letteraria che, di certo, gli riserverà nuove, grandi soddisfazioni.
Mia nonna paterna, l'unica che abbia conosciuto fra i miei avi, era una donnetta minuta, sempre vestita di nero, con il capo fasciato nel tipico fazzolettone ripiegato in diagonale, legato sotto il mento. Viveva nel nostro paese d'origine, alla sommità della collina che, dalla piana sconfinata, in dolce inerpicarsi verso i contrafforti appenninici, improvvisamente, dopo aver dilagato in uno spiazzo immenso, sprofonda nella vallata sottostante. Lo spiazzo era occupato nella quasi totalità dai pubblici giardini, fiancheggiati da un rude caseggiato ad un solo piano, di vetusta età, un antico convento semi diroccato. La sua casa si costituiva di uno stanzone al piano terra di quella antica costruzione, tagliato in due da un precario tramezzo: di qua l'ambiente di intrattenimento con la cucina nell'angolo, di là la zona notte dominata da un lettone altissimo sul quale, per noi bambini, era impossibile inerpicarsi se non arrampicandoci prima su una sedia a mo' di scaletta. Sotto il letto le sorbe, ordinatamente dispiegate a maturare su tavole e teli, erano l'oggetto delle nostre vogliose scorribande. La mobilia possente ed austera sembrava fosse stata messa lì solo per fare da sostegno alla moltitudine di icone statuarie dagli occhi spiritati che, incapsulate sotto le campane di vetro, conferivano all'ambiente la suggestiva e struggente scenografia di un museo delle cere casalingo. Lo stanzone, umido e freddo, aveva una porticina che dava all'interno della villa comunale, dalla quale facevano capolino ramarri e lucertolone a cui, noi piccolini, davamo la caccia durante il giorno, mentre al calar del sole inseguivamo le lucciole che, a frotte, volteggiando basse sulla vegetazione, sembravano invitarci al gioco, con le loro fantastiche lucine intermittenti.
La nonna, se non impegnata nelle faccende domestiche, sedeva al bordo del braciere e, muovendo impercettibilmente le labbra, martoriava perennemente un rosario fra le sue mani piccole, ossute e grinzose. Sembrava una donna senza tempo. La sua testa aveva uno strano tremolio ondulatorio, incessante; sembrava, con quel tremolio, disapprovasse tutto e tutti. Di poche parole, non si abbandonava mai a coccole e moine e neppure ci concedeva espansive testimonianze del suo affetto che limitava al dono di un nichelino a Natale e Pasqua. Nel rivolgerci a lei pretendeva l'appellassimo con l'arcaico "voi", non consentendo a nessuno, nemmeno a suo figlio, nostro padre, l'adozione del più confidenziale "tu". La sera, dopo cena, tutti raccolti intorno al fuoco, ci raccontava fiabe e favole di altri tempi. Fra le altre, ci narrò di un episodio che lei aveva vissuto in gioventù: l'ingresso in paese di un nuovo Vescovo, che a quell'epoca poteva definirsi un evento "storico". Il novello pastore era un frate, forse un abate, proveniente da un convegno rupestre, non aduso ai fasti protocollari né alle cerimonie sontuose che si organizzavano in occasione della presa di possesso delle sedi vescovili. Sicché, percorrendo trionfalmente le strade del paese, osannato da due ali di folla esultante e circondato da tutti i prelati in pompa magna, mentre con la mano destra benediceva il popolo festante, quasi imprecando contro gli eventi di cui era protagonista, biascicava a voce bassa: "Ma cum' cazz'è jut; ma cum' cazz'è stat!"1; indi, volgendo lo sguardo alle genti assiepate a fare da sponda al corteo, confuso e meravigliato da tanto entusiasmo nei suoi confronti, continuava a ripetersi: "Ma cum' cazz'è jut; ma cum' cazz'è stat!"; e così, per l'intero percorso che lo portò trionfalmente prima in Cattedrale e successivamente al Palazzo Vescovile, non fece che replicare la prosaica invocazione: "Ma cum' cazz'è jut; ma cum' cazz'è stat!".
Dopo una intera giornata di viaggio, proveniente dal profondo sud, accompagnato dalla mia metà, due dei miei quattro figli, mio genero ed uno dei tre nipotini, ero giunto a Riva del Garda, per partecipare al grande simposio del Gold Age e ritirare la farfalla d'argento conseguita alla mia prima partecipazione al concorso "La parola e l'immagine". Qualche mese innanzi avevo letto il libro contenente le opere premiate l'anno precedente e dalle note biografiche dei partecipanti avevo preso coscienza dell'alto livello culturale degli autori: in prevalenza ex docenti, laureati o diplomati, ognuno con il suo bagaglio di conoscenze e di esperienze nel mondo delle belle lettere. E poi tantissimi altri operatori in diversi settori professionali come la medicina, l'economia, la comunicazione, comunque quasi tutti professionisti avvezzi all'uso di carta e penna.
Dopo il tranquillo pernottamento nell'albergo assegnatoci, l'indomani guadagnammo il Palazzo dei Congressi dove si sarebbe svolta la cerimonia della premiazione. Nell'immenso salone, sebbene fosse convenuta tanta gente e sebbene fossi in compagnia dei miei più stretti congiunti, mi sentii solo e frastornato. Guardavo, ammirato, quella moltitudine di persone che avevano tutta l'aria degli intellettuali a tempo pieno e mi chiedevo come mai io mi trovassi in mezzo a loro, in quel posto, nell'alveo di quell'eletto consesso, presieduto da una giuria di tutto rispetto, composta da alcuni fra i più bei nomi del mondo letterario ed artistico nazionale; io, che nella vita, fra le altre attività, ero approdato, sia pure per un caso fortuito, anche a quella che, nell'accezione comune, è ritenuta la più squallida e la più disprezzabile: l'impresario delle estreme onoranze.
Smarrito e confuso, cercavo di rincuorarmi ripetendomi concetti e considerazioni acquisiti nei cinque lustri di attività e di impegno sindacale, attraverso i quali avevo conseguito esperienze nazionali ed internazionali su quella atipica professione. La quale, nonostante le apparenze, è permeata di significativi risvolti umani e sociali ed anche di spiccata dignità, se svolta nel solco del rispetto che si deve a chi non c'è più ed a chi ne piange il distacco doloroso. Considerazioni che, tuttavia, non riuscivano a fugare il mio smarrimento e la mia angoscia perché soverchiato dalla negatività di giudizio meritatamente conquistato dalla categoria alla quale mi sono sentito di appartenere visceralmente, pur nella consapevolezza che, nel giudizio comune, chi pratica quel mestiere è ritenuto persona becera, priva di scrupoli, sempre pronta ad approfittare delle disgrazie altrui e, solitamente, non incline allo svolgimento di attività culturali. È vero che, mentre mi dedicavo a quel genere di attività, scrivevo e tuttora scrivo, sulle riviste settoriali, articoli a prevalenti tematiche deontologiche, finalizzati a promuovere l'emancipazione etica della categoria. È vero che continuavo a cibarmi alla fonte dei miei autori preferiti, primo fra tutti Leopardi. È vero che stavo per dare alle stampe il mio primo libro autobiografico ed è verissimo che un secondo, monotematico, stavo scrivendo, costituito da una raccolta di novelle attraverso le quali illustro ombre e luci, vizi e virtù, pregi e difetti del comparto funerario, corredate da aneddoti e da riflessioni personali su quell'evento imperscrutabile e terrorizzante che l'uomo, con un blando eufemismo, definisce il sonno eterno. Ma tutto ciò non mi consentiva di sentirmi integrato nella variegata umanità colta che affollava quella enorme sala. Mi sentivo estraneo e profondamente a disagio. Inconsciamente era come se temessi che qualcuno, riconoscendomi, svelasse agli altri la mia vera connotazione professionale e che, a causa di ciò, venissi escluso dalla premiazione. Mi chiedevo cosa ci facessi in quel contesto e come avessi meritato il premio, per ritirare il quale avevo percorso tanta strada, insieme ad una folta componente della mia famiglia. E fu in questo turbinio di fantasticherie che mi balzò alla mente l'aneddoto raccontato da mia nonna in una epoca che sembrava remota anni luce. Rividi la mia nonnetta, grinzosa e severa, col suo lungo vestito nero ed il fazzolettone annodato in gola, e cominciai a ripetermi, come il fraticello sbalzato inaspettatamente sul soglio vescovile, "Ma cum' cazz'è jut; ma cum' cazz'è stat!", fino al momento in cui il microfono scandì il mio nome e cognome e, senza esitazione, con passo certo, mi avviai verso il palco della premiazione, affogando, così, nell'oblio tutte le mie titubanze.
1 (1) "Ma come cazzo è successo, ma come cazzo è potuto accadere!".
Alfonso De Santis