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Essere impresari in tempo di epidemia

Con la testimonianza di Antonio Servidio, impresario di una delle zone più colpite dal coronavirus, abbiamo inteso dare simbolicamente voce alle migliaia di operatori che in questo periodo hanno lavorato in una situazione di estrema criticità.

Ci auguriamo di non peccare di ottimismo azzardando che il peggio sia ormai alle spalle. Quello che è successo in questi mesi di emergenza Covid-19 è sotto gli occhi di tutti. I mezzi di informazione ci hanno tenuto costantemente aggiornati sull’andamento del contagio con una puntuale tragica contabilità, con i dibattiti tra gli esperti e gli innumerevoli servizi speciali dedicati alla malattia e alle conseguenti gravi ricadute sull’economia, ma anche raccontando le storie e le mille difficoltà quotidiane delle persone comuni.    

Abbiamo voluto farlo anche noi raccogliendo la testimonianza di un operatore in una delle zone più colpite per capire “dal di dentro” come gli impresari funebri hanno gestito una situazione talmente tragica e inattesa da poter essere considerata al limite del surreale, oltretutto senza alcuna preparazione specifica e con poco o nullo aiuto. Abbiamo così metaforicamente bussato alle porte dell’impresa “La Bergamasca” con sede a Stezzano (BG) e con altre 5 succursali sparse in tutta la provincia che a breve potranno avvalersi anche di una casa funeraria, il cui progetto è in fase di realizzazione. Ed è il titolare Antonio Servidio, “figlio d’arte” di origine piemontese (in provincia di Torino gestiva con altri soci l’agenzia “Imprese Riunite”) trasferitosi in Lombardia per amore di una bergamasca, da cui ha preso ispirazione per il nome della sua agenzia, ad accettare di buon grado di condividere la sua esperienza.

Signor Servidio, come sono stati questi mesi?
L’emergenza Coronavirus non ha messo a dura prova solo medici e infermieri, anche noi operatori delle onoranze funebri siamo stati coinvolti in modo alquanto pesante. Le posso confermare che sia io che i miei colleghi siamo stati sottoposti a situazioni altrettanto dure, sia fisicamente che psicologicamente, è stato un carico emotivo e fisico veramente difficile da reggere. Siamo stati costretti ad orari estenuanti e a dover gestire una mole di lavoro mai vista: tanto per semplificare le dirò che abbiamo dovuto provvedere anche a dieci funerali al giorno, cosa che in tempi normali se ne effettuano al massimo un paio. E il tutto dovendo attenerci a delle normative molto stringenti e con il pericolo costante di venire contagiati”.
A proposito della sicurezza qual è la situazione per gli operatori funebri?
Oltre allo stress emotivo e fisico, il nostro lavoro in questo periodo è diventato obiettivamente anche molto pericoloso, perché si tratta di frequentare reparti d’ospedale più volte al giorno ed entrare a stretto contatto con salme di contagiati. Il personale ospedaliero provvede alla disinfezione subito dopo il decesso, tuttavia il rischio permane perché la morte non esaurisce la carica virale di un corpo e lo dimostra il fatto che parecchi impresari funebri sono stati colpiti dal virus e taluni sono anche deceduti. Inoltre abbiamo avuto grossi problemi a rifornirci degli indispensabili presidi di sicurezza (mascherine, tute, gambali, occhiali, guanti…) che, tra l’altro, sono tutti articoli monouso e quindi prevedono una richiesta di fornitura elevata. Nessuno ci ha aiutato nella ricerca di questi materiali, abbiamo dovuto arrangiarci a reperirli da soli, a partire dalla semplice mascherina che, soprattutto nei primi tempi, o non si trovava, oppure era disponibile a costi triplicati".
Avete adottato delle precauzioni particolari?
Lavorare in queste condizioni si teme molto per la salute propria e per quella dei propri cari. Per questo io e il mio staff ci siamo imposti di mettere al primo posto la sicurezza delle nostre famiglie, adottando e rispettando importanti regole di comportamento come, ad esempio, indossare sempre guanti e mascherina anche quando siamo in ufficio, disinfettare e prestare attenzione a tutto quello che tocchiamo e prima di rientrare a casa provvedere a gettare tutte le protezioni usate durante la giornata”.
Da un punto di vista strettamente operativo, com’è la procedura in presenza di un decesso per coronavirus?
Dopo l’accertamento della morte, noi operatori provvediamo al più presto ad adagiare la salma nella bara, che non viene nemmeno vestita, ma avvolta in un apposito sudario imbevuto di disinfettante. Il cofano viene subito chiuso e a tutt’oggi (l’intervista è stata rilasciata ai primi di maggio, ndr) trasportato al cimitero per una breve funzione a cui possono partecipare solamente parenti stretti, al massimo quindici, sempre mantenendo le distanze sociali, e solamente qualora non siano in obbligo di quarantena”.
Qual è stato l’impatto del decesso di un congiunto sulle famiglie in questo periodo?
Non bisogna mai dimenticare che dietro ai dati che quotidianamente sono stati diramati, non ci sono solo numeri ma intere famiglie distrutte dal dolore della perdita del proprio caro, senza averlo potuto vedere per l’ultima volta, senza aver potuto pregare e piangere al suo capezzale e senza nemmeno poter effettuare un passaggio in chiesa. Chi ha pianto i propri morti ha dovuto per lo più farlo in solitudine. Non si sono celebrati i funerali, sono state sospese le camere ardenti, le messe, i commiati. Una veloce preghiera e una benedizione, a questo si è ridotto l’ultimo saluto. Nell’emergenza sanitaria che ha colpito e che continua a colpire il mondo, si muore soli e anche chi rimane non ha nessuna spalla a cui aggrapparsi e una cerchia di affetti con cui condividere il dolore”.
La tecnologia è stata di aiuto?
Al momento dell’ultimo saluto, per rendere meno asettica la cerimonia, le famiglie si sono affidate molto (e ancora continuano a farlo) alle nuove tecnologie: sempre più spesso vengono infatti scattate foto o realizzati video della breve funzione, tramite cellulare, permettendo così a chi lo desideri di partecipare comunque alla tumulazione, anche se a distanza. La tecnologia ha rappresentato un aiuto fondamentale anche per noi quando era praticamente impossibile incontrare di persona i parenti, quasi sempre in quarantena, e consentendoci inoltre di interfacciarci con gli Enti preposti per quanto riguarda il disbrigo delle pratiche relative al defunto, agevolando il nostro lavoro e ottimizzando i tempi già così ristretti”.
C’è stato qualcosa che l’ha particolarmente colpita e che non dimenticherà mai?
Come tutta l’Italia anch’io sono stato alquanto impressionato dalla scena struggente della fila dei camion militari che trasportavano le salme fuori da Bergamo, in zone meno colpite dall’epidemia, per la mancanza di spazio nei forni crematori. Quello è stato un segnale tangibile del dramma che stavamo vivendo e che ha impedito persino di onorare i nostri defunti. D’altronde i crematori erano al limite non riuscendo a reggere i ritmi della domanda. Si è così dovuto dar luogo “all’espatrio” dei deceduti verso altre provincie e regioni. Per le salme che non hanno potuto essere accolte nei crematori entro i 5 giorni dal decesso la famiglia ha dovuto optare per l’inumazione, magari non seguendo i desideri del defunto, oppure per una tumulazione temporanea, per procedere alla cremazione in un secondo momento, quando la pandemia sarà passata”.
Il racconto del signor Antonio Servidio vuole rappresentare la voce delle migliaia di impresari che in questo periodo hanno vissuto esperienze del tutto simili e altrettanto dure e difficili. Lavorare per le onoranze funebri durante l’epidemia significa fare parte di quelle categorie in “prima linea”, ossia di coloro che non possono rimanere semplicemente confinati in casa, ma che continuano ogni giorno a prestare la loro opera perché il loro servizio è necessario alla comunità e per questo ancora una volta vogliamo far giungere loro il ringraziamento di tutta la redazione di Oltre Magazine.
 
Alessandra Natalini


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