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Il cimitero degli ergastolani

Il cimitero del carcere di Santo Stefano: il luogo della anime sole, dove nessuno porta mai un fiore.

Il Mar Tirreno acquisisce il proprio nome dall’antico popolo dei Tirreni, meglio conosciuti come Etruschi e bagnando l’Italia, forma idealmente un triangolo rettangolo la cui ipotenusa coincide con la sua costa occidentale.
Ecco, dalla profondità di questo triangolo immaginario è emersa, svariati secoli fa, l’isola vulcanica di Santo Stefano. Questo minuscolo atollo, che scruta Ventotene da soli 2 km di distanza, ha fatto da sfondo alle narrazioni del mito di Ulisse, che proprio su quelle sponde è stato travolto dal canto ammaliante delle sirene.

Santo Stefano è sempre stata un‘isola attraente che però quasi per scherno, a causa della sua conformazione geografica, ha respinto nel tempo gli insediamenti stabili. L’ormeggio delle navi è infatti difficoltoso per via delle scogliere scoscese e dei venti avversi talvolta molto forti. A tutt’oggi l’isola è disabitata e non esistono tratte che portano fino ad essa per poterla visitare. Si può raggiungerla esclusivamente con imbarcazioni private, o in elicottero, il che la rende ancor più affascinante.

Nell’isola coesistono due anime: l’anima legata all’aspetto naturalistico caratterizzata dalla bellezza di un paesaggio senza eguali con un mare incontaminato e l’anima storica legata a quello che nel corso degli anni l’isola è diventata: un’Alcatraz italiana, prigione eterna dei corpi e delle anime degli ergastolani.
Proprio tra il 1749 e il 1795 Ferdinando IV di Borbone aveva dato il via ai lavori di realizzazione di quello che ancora oggi conosciamo come il carcere di Santo Stefano dal nome del piccolo monastero dedicato al santo omonimo, che già si trovava sull’isola. La struttura imponente era stata progettata secondo una forma circolare; l’ingegnere Francesco Carpi, aveva elaborato un edificio con lo scopo di facilitare il lavoro di un unico sorvegliante che poteva vigilare tutti i carcerati in un solo colpo d’occhio. L’edificio infatti era anche detto Panopticon, che significa letteralmente: ciò che può vedere tutto.

I carcerati erano costantemente sorvegliati e le loro celle si affacciavano tutte verso l’interno in modo che essi non potessero vedere mai nient’altro, con un impatto psicologico devastante. Nonostante l’isola fosse circondata dal mare, dalle celle la sua vista era completamente preclusa.
Il carcere doveva detenere i criminali ma nel corso della sua storia purtroppo si è trasformato in un luogo in cui venivano portati gli individui poco graditi al potere, come coloro che si ribellavano alla dittatura. Tra tutti quelli che hanno abitato le piccole celle, il pensiero infatti va soprattutto a chi nel carcere ha scontato una pena ingiusta, che è morto per un errore umano o per seguire un ideale. Sono tanti i nomi illustri degli uomini che hanno varcato quella soglia; anche Sandro Pertini, divenuto il settimo Presidente della Repubblica Italiana dal 1978 al 1985, è stato carcerato a Santo Stefano, soffrendo la solitudine in un luogo così lontano ed isolato.

Ma la vera essenza dell’ergastolo, ossia della privazione totale sia della libertà che della dignità, veniva espressa in un altro luogo appartenente all’isola. Il cimitero. In questo piccolissimo camposanto bagnato dal sole l’atmosfera è sempre stata pesante. Appariva agli occhi dei rari visitatori come un fazzoletto di terra a picco sul mare, la cui soglia era segnata da un cancello recante l’iscrizione che recitava: “Qui finisce la giustizia degli uomini, qui incomincia la giustizia di Dio”.
Oggi piccole croci di legno segnano sepolcri a terra di uomini dimenticati. Senza fiori, senza foto e senza luci votive per tenere compagnia a quelle anime sole. Giusto una piccola cappella diroccata in fondo al lembo di terra rappresenta in qualche modo il perdono di Dio.

Riflettendo sull’approccio del genere umano al tema della morte e del lutto, non sappiamo con certezza quando per la prima volta si sia sentita l’esigenza di seppellire un defunto accompagnandolo con un rito. Sappiamo però con certezza che la tomba è sempre stata un importante simbolo del ricordo. L’uomo ha realizzato la tomba in pietra ancor prima di realizzare in pietra la città e questo indica l’importanza che già dalla preistoria rivolgeva alla morte pur non capendone fino in fondo il significato. La pietra è il simbolo del ricordo stabile che non perisce nel tempo, che non si rovina sotto le intemperie. Il legno di quelle piccole croci con la salsedine e con il passar degli anni finirà invece per deteriorarsi fino a cancellare il ricordo e la memoria di quegli uomini già dimenticati dalla storia.
I carcerati a Santo Stefano erano gli ultimi, nella vita come nella morte, quelli che erano stati allontanati dalla società. Gli ultimi, i dimenticati, i futuri abitanti di quel minuscolo cimitero in cui non passava mai nessuno.

Il camposanto dell’isola è uno dei più piccoli d’Italia. Non si sa esattamente quando sia stato realizzato ma sicuramente non nasce da un progetto architettonico. É costituito da un recinto, da cui si accede oltrepassando un cancello di ferro, e ospita sepolture a terra che, come le celle del carcere perlopiù non si affacciano verso il mare, come a voler perpetrare la condanna per l’eternità. Non trasmette quell’idea di quiete e speranza che in realtà dovrebbe avere. Nonostante sia immerso nella vegetazione di un’isola meravigliosa è un luogo triste e accoglie le salme di coloro che non sono morti per cause naturali, che si sono suicidati oppure che sono passati a miglior vita per cause sospette.

Ci si arriva a piedi passando per una stradina bianca di terra che dal cimitero porta alla Piazza della Redenzione dove c’è l’ingresso del reclusorio. La redenzione è il conseguimento della libertà fisica o morale attraverso la liberazione dalle colpe, ma non c’è redenzione per i condannati all’ergastolo. Forse l’unico vero luogo di liberazione era il cimitero, ovvero l’emblema di uomini cancellati dalla collettività che appena sbarcati sull’isola erano già morti, ancor prima di morire.
 
Miranda Nera


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