- n. 9 - Ottobre 2001
- Appunti di viaggio
BREVE VIAGGIO nel KENYA delle PERSONE
Questa volta non parlerò della Morte.
Perlomeno non direttamente.
Mica per altro. È solo perché prossimamente ne parlerò più di quanto non possiate immaginare.
Questa volta parlerò della Vita, sua sorella, che mi accompagnò qualche anno fa in un viaggio di alcune settimane in Kenya.
Fu per me un Kenya inconsueto, in parte sconosciuto e in parte occidentalizzato, con atmosfere "on the road" che spesso mi ricordavano di più la Lousiana e il Blues che non l'Africa dell'immaginario collettivo. La mia Associazione culturale fa parte del comitato per l'intercultura dell'AICS di Torino. Abbiamo numerosi ed intensi rapporti con gruppi di stranieri impegnati sia culturalmente che socialmente. Una delle nostre attività è proprio l'organizzazione di viaggi finalizzati al reportage sociale, accompagnati da ragazzi immigrati che possono guidarci, fin dall'Italia, in zone semi-sconosciute e fuori dai circuiti turistici, nelle loro terre di origine.
La ragazza che ci invitò in Kenya, la sua terra, è Maryanne, che corroborò la nostra tesi dimostrandosi una guida straordinaria. Nel gennaio del 1999 un gruppo di cinque persone raggiunse il Kenya, facendo base a Nairobi, per effettuare alcune escursioni sia in Land Rover che a piedi.
Quattro italiani, tre uomini e una donna, e Maryanne, kenyana, immigrata in Italia da dieci anni e residente a Torino dove svolge le sue attività. Qui si trovano infatti il suo negozio di artigianato e la sede della sua associazione culturale "From the Nile" impegnata a diffondere la cultura africana in Italia.
A Nairobi fummo ospiti della sua famiglia che vive in condizioni dignitose anche se difficili, pur essendo i suoi genitori scrittori ed editori, impegnati anche sul piano sociale e politico. Una mattina partimmo per una escursione di alcuni giorni. Ci dirigemmo a ovest, verso il lago Vittoria.
La prima tappa fu il lago Naivasha, è lì che mi parve di varcare la soglia di una porta affacciata sull'immensità. Costeggiando la Rift Valley(1), raggiungendo prima il lago Nakuru e poi Kericho, cittadina inglese capitale della zona delle piantagioni di tè.
Sul lago Vittoria, durante la permanenza a Kisumu, visitammo la città e i dintorni, con villaggi di pescatori e il lago ormai anch'esso contaminato dalla civiltà e invaso dalle alghe.
Ma fu dall'incontro con Nyanghì che le cose cominciarono a cambiare veramente, trasformando quello che era un semplice viaggio in una esperienza profonda. Nyanghì è una splendida ragazza ventiduenne di etnia Lùo e la vedemmo per la prima volta nella savana, alcune decine di chilometri prima del lago Vittoria, nel villaggio di Ahero.
È da lì che veniva la famiglia di Maryanne e Nyanghì era sua cugina. Appena giunti sul posto quello che saltava agli occhi e poi al cuore, poi più tardi, nella notte, direttamente alla testa, era la quantità di bambini.
Di questi, uno era figlio naturale di Nyanghì, altri cinque o sei erano stati da lei, altrettanto naturalmente, adottati. Già, perché la seconda cosa che saltava agli occhi, poi al cuore, poi alla testa era l'assenza totale di adulti. Proprio così, c'erano bambini, ragazzi e vecchi. Quasi nessun adulto.
Sì perché nella savana, anche a poche decine di chilometri da uno dei laghi più grandi del mondo, l'acqua non c'è e la gente è costretta a prendere l'acqua per scopi alimentari dalle stesse pozzanghere (avanzo della stagione delle piogge) dove va a lavarsi, a lavare i panni e dove si abbeverano gli animali, così periodicamente scoppiano delle epidemie.
È in questo modo che lì la gente, se sopravvive alla sete, muore di colera. Perché poi i più colpiti siano gli adulti tra i 30 e i 60 anni di età io non lo so. Non lo sa neanche Nyanghì o forse non ha mai avuto il tempo di chiederselo perché, con sei o sette bambini da accudire, si alza alle cinque del mattino per passare la giornata a portare l'acqua fetida dalle pozzanghere alla capanna in grosse brocche di terracotta che si sistema sulla testa. In pentoloni di terracotta ancora più grossi l'acqua a volte (quando ne ha il tempo) la fa bollire per eliminare almeno qualcuno dei batteri che ci nuotano.
Maryanne vorrebbe aiutarla, così ha avuto un'idea: organizzare una sottoscrizione che ha intitolato "Acqua per Nyanghì". È una cosa che fa morire dal ridere perché per far arrivare l'acqua ad Ahero si dovrebbero raccogliere centinaia di milioni, miliardi, per trivellare. Se non fosse però che non c'è proprio niente da ridere...
Quando tornammo a Nairobi continuai le escursioni da solo con Maryanne e suo fratello sprofondando sempre di più in una atmosfera surreale enormemente distante non solo da qualsiasi itinerario turistico, ma anche dalla nostra consueta vita quotidiana.
Andammo a piedi a un laghetto nei pressi della città per vedere gli ippopotami. Gli ippopotami non c'erano perché stavano facendo il bagno al largo. Nessuno sembrava sapere alcunché sugli ippopotami.
Ma scoprimmo tutto avvistando in lontananza il naso di uno di loro che affiorava per respirare. In compenso, nel più scenografico dei non-sense, dal folto della foresta vicino al laghetto comparvero due tizi, un Masai e un altro vestito all'occidentale, che ci invitarono a seguirli.
Ci condussero, a pochi passi, tra il fogliame, verso gruppo di uomini che, ci spiegarono, era un "bush bar", un bar clandestino nella foresta ("bush" significa appunto "foresta" o "boscaglia" con buona pace del presidente degli Stati Uniti d'America).
In questo posto, sdraiati sull'erba, c'erano masai, lùo, kikuyu(2) che bevevano una sorta di sakè distillato (fuorilegge) dalla canna da zucchero. E' alcool puro, solo che si sente che viene da una pianta. Doveva essere qualcosa di simile quello che i bluesmen delle piantagioni di canna da zucchero in Louisiana chiamavano canned heat, il "calore in scatola". Da quel momento il mio rapporto con la gente del Kenya diventò come "onirico".
Ma il canned heat non c'entrava. Forse furono le persone che incontrai, forse un attacco acuto di mal d'Africa, io non lo so... Al bar mi si avvicinò un tizio di cui non avrei saputo definire l'età. Un bell'uomo, alto e magro, ma vigoroso, mal vestito all'occidentale, senza scarpe, con la carnagione molto scura, i capelli bianchi, gli occhi tristi, ma molto intelligenti e penetranti.
Mi disse di chiamarsi Washington (con buona pace dell'anima del primo presidente degli Stati Uniti d'America) e cominciò a raccontarmi che lavorava da vent'anni nelle cave di pietra da costruzione. Mi invitò a trovarlo, dicendomi che la cava dove lavorava adesso si trovava a circa un'ora di cammino da lì verso Nord-Ovest.
Disse che avrei dovuto andarci, per vedere che faccia avrebbe avuto il nostro pianeta tra cento anni, perché l'industria esaustiva succhia tutto quello che la terra offre senza lasciare niente in cambio, se non qualcosa come una grande ferita che deturpa irrimediabilmente e definitivamente il paesaggio. Rimasi colpito dall'inglese forbito che parlava. Il giorno dopo andammo alla cava. Dal villaggio dove avevamo base facemmo parte del cammino a piedi e parte sul cassone di un camion che andava verso la cava a caricare le pietre.
Lo scenario alla cava aveva qualcosa di arcaico. Le tecnologie estrattive erano del secolo scorso. Mi sembrava di muovermi all'interno di alcune foto di Sebastiaõ Salgado. Un posto infernale. C'erano operai che lavoravano seminudi sotto un sole da 55 gradi all'ombra, che è una cosa da non crederci.
Bucare, mettere la dinamite, estrarre i blocchi, spaccare, caricare sui camion... tutto a mani nude o con strumenti elementari come un martello o un tubo di ferro. "Quante ore al giorno?"- "Dipende dall'energia che uno ha" - mi spiegava Washington, il mio ospite. "Comunque minimo otto, fino a dieci, dodici e se hai bisogno di soldi e se ce la fai anche tutta la notte".
Già, i soldi. "Tutto questo per quanto?"- "<
Dopo alcune ore di chiacchiere e foto e il cervello bollito decisi di congedarmi. Il mio amico non la finiva più di ringraziarmi. Diceva di essere molto "grateful" perché altre volte aveva invitato degli europei che poi non erano andati a trovarlo, perché in fondo i bianchi se ne fregano di quello che succede veramente in Africa.
Non stetti a spiegargli che, sì, mi interessava davvero molto, ma non ero accreditato da nessun giornale, che facevo le foto e che forse le avrebbero pubblicate come era successo altre volte, ma non era detto. Tornammo a Nairobi a bordo di un altro camion, questa volta in compagnia dei pietroni. Nei giorni successivi Maryanne sembrava goderci a mettermi alla prova con escursioni e incontri sempre più "hard".
Andammo a trovare sua zia, una Masai, che viveva con i pastori e guerrieri (non di quelli pagati dal governo per saltellare come deficienti) a Namanga al confine con la Tanzania. Un'altra volta incontrammo un gruppo di ribelli a Nairobi.
Di quelli che si stanno organizzando sia nelle città che sulle montagne perché sono stanchi della semidittatura che affligge il Kenya da troppo tempo. Fu l'unica occasione nella quale venni attaccato verbalmente, direttamente e pesantemente in quanto "bianco", mentre proprio in quei giorni avevano appena sparato in faccia a un fotografo italiano uccidendolo.
Ma quello che vorrei raccontare (non so perché mi sembra importante) è cosa vidi il pomeriggio in cui attraversammo uno dei ghetti di Nairobi. Ce ne sono diversi e sono dotati di una identità, di una personalità talmente definita da non sembrare cresciuti da soli, ma studiati da un architetto del male pagato profumatamente per farlo.
Quello dal quale passammo noi si trova nei pressi della chiesa dedicata a Madre Teresa di Calcutta, che proprio qui trent'anni fa prestò la sua opera. L'ingresso al ghetto pareva come un mercato delle pulci alla periferia di una città europea, ma molto più sporco. A questo punto bisogna ricordare che in Kenya, anzi in tutta l'Africa, sono difficoltosi sia la raccolta che lo smaltimento dei rifiuti. Per lo più la spazzatura, raccolta in sacchetti di plastica come in Europa, viene lasciata letteralmente dove capita.
Il risultato, dopo trenta, quarant'anni di questo lavoro è che il suolo delle città africane e i loro dintorni sta soffocando sotto brandelli di plastica che sono proprio una caratteristica di certi paesaggi urbani.
Nei ghetti è un po' diverso perché la plastica è "arricchita" dai rifiuti organici e di altro genere per la "gioia" dei bambini che passano del tempo a scavare nella spazzatura nella speranza di trovare qualcosa di interessante. Scattai alcune fotografie, ma smisi subito rimandando un più completo servizio fotografico a dopo aver preso accordi con i leader locali, perché la cosa stava attirando troppo l'attenzione.
Continuammo l'escursione addentrandoci nell'agglomerato di capanne di legno e terra coperte da tetti di lamiera. Visto da fuori questo agglomerato sembrava una enorme dolina vulcanica riempita di rifiuti sui quali erano state costruite le "abitazioni". Tutto era coperto come da una fuliggine marrone-nera. Non so perché mi venne in mente un vecchio film di Vittorio DeSica, "Miracolo a Milano".
La gente mi osservava. Ero l'unico bianco e lo zainetto con l'attrezzatura fotografica dava nell'occhio. Sentivo commenti in swahili. Alcuni li capivo, molti altri no. "Cosa ci fa un bianco quì dentro". In seguito Maryanne mi disse che la quasi totalità di questi commenti, anche quelli più ironici, erano positivi.
A un certo punto cominciammo a salire addentrandoci in un budello all'interno dell'accozzaglia di capanne. Era davvero infernale, ma mi accorsi di una cosa: le persone, i loro vestiti, erano molto puliti e la maggior parte di loro era gioiosa. Sì, sorridevano, e alcuni mi salutavano. Come fotografo trovai lo scenario un'opera d'arte.
Era come se le persone fossero fiori incontaminati appoggiati sul fango. Lo dissi a Maryanne. Le dissi anche che avrei potuto registrare delle immagini stupende, che avrebbero documentato sì la miseria, ma soprattutto la dignità delle persone. Qualcuno ogni tanto mi prendeva per un braccio, per fermarmi, nella speranza che comprassi qualcosa da loro. C'erano molti bambini che giravano da soli, a piedi nudi sui bordi del rigagnolo di liquame che attraversava il ghetto. Una donna mi disse di salutarli, di stringere loro la mano. Lo feci.
Pensai a Johann Galtung(3) che una volta disse: "Si può capire se una città è sana se ci sono dei bambini che vi circolano da soli". Quando fummo alla sommità della dolina il paesaggio era davvero surreale. Il marrone-nero era adesso mescolato a uno strano grigio-argento e si vedevano quà e là fuochi accesi e volute di fumo.
Ovunque solo terra, fango e baracche, ma il posto era vivo, carico di energia. Un ragazzo vendeva teste e zampe di gallina che bollivano in un grosso pentolone. Vidi una donna seduta, dall'aria importante, che portava un bambino infagottato sulla schiena. Mi chiese di stringerle la mano. Forse era una dei leader del ghetto o forse solo di una parte di esso o forse riteneva solo di esserlo. Mi chiese cosa pensavo di quel posto. Mi sentii a disagio e guardai Maryanne che mi disse: "Quello che mi stavi dicendo prima...".
"È artistico". Risposi alla donna. Lei annuì col capo. Sembrava soddisfatta. Poi disse qualcos'altro che non ricordo e mi chiese cosa volevo fare lì. Le risposi che avrei voluto fare delle foto per immortalare la dignità delle persone di quel posto.
"Fotografami con il bambino"- disse, spostandolo di fianco con una rotazione della schiena e come con una tristezza aggressiva nella voce. Riprendemmo il cammino avviandoci all'uscita. Preferii tornare indietro senza passare per il ghetto; volevo riflettere su quello che avevo visto, che era già più che sufficiente. Pensai per un attimo ai nostri problemi occidentali, alle nostre lamentele, alla Ferrari, ai villaggi vacanze. Pensai che avrei voluto essere ricco o essere qualcuno di importante per potermi dedicare a denunciare le troppe assurdità che imperano sul nostro pianeta.
Come la storia dei sacchetti di plastica per esempio. Sembra una sciocchezza, ma invece è un vero casino perché i suoli delle città e delle periferie africane in gran parte non sono più coltivabili. È una faccenda seria e fra non molto i rifiuti africani saranno un problema che riguarderà anche l'Europa, visto che sul piano ambientale è a due passi e il Nilo parte proprio da qui per arrivare nel Mediterraneo.
Tutto questo riguarda un altro progetto di Maryanne. Un'altra cosa che fa morire dal ridere. Vuole pulire Nairobi dalla plastica. A volte io e gli altri amici ci chiediamo chi si crede di essere. A volte ci fa una tenerezza infinita. Comunque vuole che la aiutiamo a redigere i progetti.
"Per chiedere i contributi all'UE e all'ONU" dice. Roba da sbellicarsi dalle risate. Ma non c'è proprio niente da ridere.
Forse sarebbe ora di cominciare a vedere le cose in modo diverso. Un giorno un veggente nigeriano mi disse, come se parlasse di una cosa ovvia: "L'Italia è tanto lontana dall'Africa, ma di notte, nei sogni, non è più lontana che come da qui al mercato".
NOTE
1. Rift Valley. È la madre di un oceano. Ovvero è una spaccatura del continente africano di proporzioni geologiche che parte dal golfo di Aden per arrivare al Sudafrica. Darà origine, sempre in tempi geologici (di milioni di anni) a un oceano, per via di due zolle continentali che si stanno reciprocamente allontanando.
2. Masai, Lùo, Kikuyu. Etnie del Kenya. I Masai sono un popolo di pastori e guerrieri e hanno conservato un forte attaccamento alle antiche tradizioni. I Lùo e i Kikuyu sono più contaminati dalla civiltà e maggiormente urbanizzati.
3. Johann Galtung. Svedese. Uno dei massimi esperti mondiali di studi sulla "Pace".