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Blu Whale, la sfida estrema

Portato alla ribalta da "Le Iene", il perverso gioco online inqueta e fa discutere. Ma forse parlarne meno potrebbe essere la soluzione più saggia per evitare tristi fenomeni di emulazione.

Qualche settimana fa, con una toccante intervista, l’irriverente programma televisivo Le Iene ha fatto scoppiare il caso, portando a conoscenza del grande pubblico il fenomeno “Blue Whale”.
Di che si tratta? Definirlo gioco è un termine assai poco appropriato, è piuttosto una sfida, attuata attraverso i social network, rivolta ad un pubblico di giovanissimi che vengono sollecitati a superare prove aberranti fino a compiere il gesto estremo di togliersi la vita, in un crescendo di emozioni forti, di paura ed euforia nel tentativo, forse, di diventare una leggenda nel mondo reale come nel web, guadagnandosi una sorta di immortalità. Il percorso dura 50 giorni in cui coloro che vi aderiscono sono chiamati a sottostare a regole assurde e affrontare 50 macabri livelli (come d esempio procurarsi delle ferite, stare sul bordo di un ponte, svegliarsi alle 4.20 del mattino per guardare film horror…) Ogni gesto deve essere filmato e postato. L’ultima prova è la vita, con la richiesta di gettarsi dall’edificio più alto della città. Tutto questo avviene sotto il controllo di un “curatore” che guida gli adepti nelle varie fasi appropriandosi della loro volontà anche in modo ricattatorio convincendoli di poter far del male alle loro famiglie, manipolando le loro personalità ancora fragili e vulnerabili e facendoli entrare in una situazione di profonda depressione. È un meccanismo di coercizione psicologica analogo a quello messo in atto da certe sette o, più recentemente, anche dai gruppi terroristici.
Chiamato Blue Whale (alla lettera “balena azzurra”) per il comportamento che a volte spinge inspiegabilmente questo maestoso cetaceo ad arenarsi sulla spiaggia come se volesse deliberatamente porre fine alla propria vita, il fenomeno è stato portato all’attenzione dei media russi  per la prima volta lo scorso anno dalla Novaya Gazeta, il quotidiano di Mosca fondato dalla giornalista Anna Politkovskaja, uccisa nel 2006.  È quasi certo che questo gioco dell’orrore sia nato proprio in Russia nel 2013, nazione dove è attualmente maggiorante diffuso. Pare sia stato creato da Philipp Budeikin, un giovane studente di psicologia espulso dalla sua università, ora agli arresti per istigazione al suicidio, che tuttavia non sarebbe il solo. L’articolo in questione attribuisce almeno 80 casi su 130 suicidi di adolescenti, avvenuti tra novembre 2015 ed aprile 2016, a generici “gruppi di morte” presenti su VKontakte, l’equivalente di Facebook, che incoraggerebbero gesti estremi.
Il condizionale è d’obbligo perché nulla è alla luce del sole e non c’è alcuna evidenza certa fra i casi di suicidio nei teenager russi e queste comunità virtuali, tanto più che si risconta una maggiore incidenza nelle zone rurali dove i giovani sono molto meno connessi alla rete. L’unico dato certo e preoccupante è che il numero di minorenni che in questo Paese decidono di togliersi la vita è altissimo, almeno il triplo della media europea.

Il pezzo della Novaya Gazeta, così come l’inchiesta de Le Iene, non hanno mancato di attirare qualche perplessità e più di una critica. Prima fra tutti la superficialità nell’attribuire in modo pressoché univoco gli episodi di suicidio fra i giovanissimi a Blue Whale o altri social network simili. Come osserva il giornalista e scrittore Antonio Menna in un articolo pubblicato online “Ci sono mille tasselli che disegnano quadri di sofferenza: spesso hanno origine in famiglia, altre volte a scuola, nella società. Bullismo, violenze, perfino delusioni d’amore. Che però, mai, da soli portano al suicidio. Altrimenti i numeri sarebbero assai più alti. C’è sempre un meccanismo interiore, un disagio moltiplicato, una incapacità di leggerlo per tempo, un dolore non curato, una sofferenza di cui non si è parlato. Non ci si suicida perché te lo ordina uno”.

D’altronde di questi giochi al massacro ne sono sempre esistiti anche con formule più tradizionali rispetto alla rete (chi non ricorda la famosa scena della roulette russa ne Il Cacciatore, film cult del ‘78 di Michael Cimino?) e non è mai emerso che siano stati motivo di impennate di morti auto procurate. Tuttavia non si può negare che certi fenomeni che hanno un forte impatto emotivo sull’opinione pubblica, possano colpire in modo deleterio persone di particolare sensibilità e attecchire là dove sono presenti forte disagio, mancanza di autostima e scarsa capacità di reazione. Un’altra critica mossa alle due inchieste citate è quella di aver approcciato il problema in modo prettamente emotivo (con le interviste alle mamme di ragazzine decedute) ommettendo di indagare con criteri più scientifici, vale a dire esaminando i motori di ricerca, partecipando ai blog, cercando di arrivare agli amministratori dei gruppi, riservando  quindi una maggiore concentrazione sul fenomeno in sé che sulle presunte fatali conseguenze. D’altronde il parlarne troppo e in termini sensazionalistici che arrivano dritti dritti “alla pancia” di chi legge o di guarda certi servizi, invece che mettere in guardia da certi pericoli può al contrario generare un insano effetto di emulazione. Non è una coincidenza che dopo la trasmissione de Le Iene, in Italia sui motori di ricerca siano aumentati in modo esponenziale le richieste di informazioni sulla “balena azzurra”, come ha evidenziato una analisi condotta dai curatori del blog La Valigia blu

Attualmente nel nostro Paese vi sono alcuni casi di suicidi sospettati di essere collegati al diabolico “gioco” online. Il più conosciuto è quello di un quindicenne di Livorno che lo scorso febbraio si è gettato da un grattacielo, ma al momento la Polizia Postale non conferma alcun legame con la tragica sfida. È poi di questi giorni la notizia di una diciannovenne della provincia di Verona messa sotto inchiesta per ipotesi di istigazione al suicidio. Secondo l’accusa la giovane avrebbe creato un profilo twitter dove si spacciava per “curatrice” di Whale-Challenge. La ragazza per ora nega, afferma anzi che le sue intenzioni erano diametralmente opposte, di essere entrata nel gioco per esortare gli utenti ad uscire da questa perversa spirale. Quale sia la verità per ora non è dato conoscere, ma quasi certamente si tratta di un tiepido episodio di emulazione, un tentativo forse un po’ maldestro di esercitare la propria influenza su dei coetanei, magari per riscattarsi da una esistenza troppo normale.

Il caso Blue Whale sembrerebbe quindi destinato a sgonfiarsi. Ce lo auguriamo vivamente! Nel mentre, soprattutto se vi sono bambini in famiglia, è bene ricordarsi di non abbassare mai la guardia, monitorando i comportamenti e le relazioni virtuali dei nostri figli, e non sottovalutare mai e in alcun modo le insidie che possono arrivare attraverso internet capaci di conseguenze devastanti su soggetti predisposti.
 
Raffaella Segantin


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