- n. 6 - Giugno 2003
- Psicologia
Attualità della pulsione di morte
Freud (Al di là del principio del piacere, Opere, Boringhieri, Torino) ha chiamato "pulsione di morte" la tendenza dell'essere vivente a ritornare allo stato inorganico. Questa tendenza sarebbe, per il padre della Psicoanalisi, al servizio del "principio del piacere", poiché solo morendo (con l'affermarsi, cioè, della "pulsione di morte") cesserebbero le tensioni derivanti dal risorgere dei bisogni e si conseguirebbe uno stato di "costanza" equivalente ad una sorta di "nirvana".
Fortunatamente nelle tensioni determinate dai bisogni non c'è solo il sentimento ricorrente di mancanza, che ci fa tendere a non desiderare più niente, cioè a morire, ma c'è anche la tendenza a godere nuovamente della già sperimentata soddisfazione dei bisogni stessi, cioè la "pulsione di vita"(la tendenza a conservare e a godere la vita).
In questa ottica psicoanalitica, in sostanza, vivere è godere, morire è smettere di soffrire.
E siccome non si gode mai una volta per tutte, poiché dopo aver goduto si soffre nuovamente, la vita dell'uomo è una eterna lotta tra il "principio del piacere" (godere tutto e definitivamente) e il "principio di realtà" (sapere che per quanto si goda si soffrirà nuovamente). Combinati insieme dall'io di ciascuno di noi i due principi ci dicono che quando il godimento ci soddisfa desideriamo vivere, quando la sofferenza prevale desideriamo morire.
Mi chiedo se questa impostazione possa aiutarci a capire e a gestire le forme che la morte prende nell'attualità. Ad esempio, la volontà di morire che si realizza nei sempre più frequenti attentati suicidi del nostro vicinissimo oriente può essere spiegata utilizzando lo schema freudiano?
Coerentemente con l'impostazione psicoanalitica possiamo avanzare questa ipotesi: senza più speranza di poter godere della soddisfazione dei propri bisogni a causa dell'oppressione irrimediabile che oscura i loro orizzonti tanti giovani palestinesi desiderano morire. La pulsione di morte prevale in loro e pensano al suicidio.
Ma ci sono tante forme di suicidio e loro scelgono quella che le loro guide spirituali hanno "apparecchiato" per loro: il suicidio eroico ed altruistico!
In questo modo, però, il loro suicidio non ha più il suo fine in se stesso (smettere di vivere perché non si ha più speranza di poter vivere), ma diventa un mezzo: precisamente il mezzo, l'unico mezzo, a
disposizione di chi, non potendo vincere contro le potenti bombe del nemico, si trasforma in una bomba vivente e si fa saltare in mezzo ai nemici portando nel loro campo orrore e terrore.
In altri termini, il kamikaze potrebbe essere considerata una figura della impossibilità di suicidarsi: volendo mettere fine all'angoscia della sofferenza propria chi si uccide per uccidere, produce angoscia e sofferenza negli altri!
Come ha ben intuito Amleto, noi uccidendoci cerchiamo il nulla, ma potremmo produrre l'inferno. In sostanza, quando sappiamo che uccidendoci procureremo ad altri sofferenze ed angoscia, non possiamo più raccontarci che ci uccidiamo per non soffrire più (cioè facendo prevalere il "principio del piacere" attraverso l'istinto di morte) e sostenere l'impostazione psicoanalitica (per cui alla base del suicidio ci sarebbe una pulsione di morte tendente al nirvana).
L'ipotesi psicoanalitica regge solo se ci riferiamo al caso teorico di un suicidio che riguardi in modo esclusivo chi si suicida, cioè che non abbia alcun effetto in chi resta (o al caso possibile di chi recide i suoi contatti con gli altri al punto da non rendersi conto degli effetti che il suo suicidio avrà su chi resta).
Stando così le cose, non possiamo spiegare il comportamento suicida dei giovani kamikaze palestinesi solo dicendo che erano persone senza più speranza di poter vivere la propria vita e che, per questo, hanno preferito togliersela. Se così fosse stato non avrebbero accettato la strumentalizzazione che si fa del loro suicidio a scopo di lotta politica o di guerra. Forse è piuttosto nel valore che si dà agli altri rispetto a se stessi che bisogna cercare indizi per spiegare il comportamento dell'ultima generazione di kamikaze. Infatti, che prevalga il godimento (e quindi la "pulsione di vita") e non la sofferenza (e quindi la "pulsione di morte") non dipende nella vita concreta solo da forze oggettive (la salute o la vitalità biologiche) che il soggetto "ha" in sé o da forze soggettive (caratteri o personalità biograficamente determinati), ma anche e innanzitutto dagli altri (quanto accolgono, ascoltano, rispettano, valorizzano, condividono, compatiscono, aiutano), cioè dalla "Umanità" nella quale la biologia e la persona di ciascuno sono immerse fin dalla nascita e fino alla morte.
E se gli altri vengono a casa mia senza che io li abbia invitati installandosi prepotentemente nelle stanze dei miei ricordi più cari; e se io li invito ad andarsene e non lo fanno; e se io cerco di cacciarli e loro sono più forti di me; e se il sentimento di ingiustizia per tutto ciò mi fa sorgere una rabbia infinita… .
Allora la rabbia si trasforma in odio e non mi resta che esprimere la mia impossibilità di vivere (la pulsione di morte) nell'unico modo che possa nel contempo esprimere l'odio per chi ne ha la colpa: mi uccido uccidendo anche loro!
Ma se poi uccidendo i miei nemici uccido anche i loro figli che non hanno alcuna colpa di essere nati da quei genitori, finirà che per fare giustizia produco altra ingiustizia, cioè precisamente l'inferno di Israele e della Palestina, l'inferno della Cecenia, … .
Ecco allora apparire chiarissima l'insensatezza del suicidio eroico e altruistico: sono ancora un eroe se produco un inferno senza remissione e senza perdono? Sono ancora un eroe se produco l'inferno anche per coloro di cui volevo sanare l'ingiustizia subita?
Come può risorgere in tutto ciò quella Umanità che abbiamo visto essere alla base di qualunque godimento fisico e psichico, cioè alla base del trionfo della "pulsione di vita" sulla "pulsione di morte"?
Dove sono le madri che in tutti i tempi si sono opposte alla guerra senza fine che uccide i loro figli costringendole a piangere in eterno?
Le madri dei soldati israeliani potrebbero fermare i loro figli, e impedire loro di armarsi, e rendere insuperabile l'oppressione dei palestinesi; le madri dei kamikaze palestinesi potrebbero smettere di benedire il loro sacrificio e rammentare loro che è sempre meglio una brutta vita che nessuna vita.
Francesco Campione