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L'angoscia per la propria morte imminente

Claudio Magris ha affrontato sul Corriere della Sera del 6 febbraio scorso un tema tanatologico molto difficile: cosa hanno pensato gli astronauti dello Shuttle precipitato sul Texas nei 60/90 secondi durante i quali sono stati consapevoli dell'imminente e inevitabile morte che stavano per incontrare?

Si può ragionevolmente pensare, e anche Magris sembra pensarlo, che essere a un minuto, un minuto e mezzo da una morte certa significhi esserle incredibilmente vicini, una sorta di posizione privilegiata per vederla in faccia. E proprio questa vicinanza sembra rendere più tragica una morte del genere, in quanto morte non più rimandabile ad un incerto e quindi mentalmente allontanabile futuro.

Possiamo immaginare, in altri termini, gli astronauti dello Shuttle in procinto di disintegrarsi e di precipitare in uno stato di terribile angoscia e di disperazione, proprio perché un "niente" di tempo li stava separando dalla morte. Questo brevissimo tempo, tuttavia, (come lo stesso Magris nota nel suo articolo) sarà stato quasi certamente vissuto come una eternità.

Vorrei riflettere brevemente proprio sul paradosso di questo tempo brevissimo che sembra non passare mai.

Dunque, per chi è consapevole che sta per morire, più breve è il tempo che manca e più sembra lungo. La considerazione più immediata è che si tratta di istanti talmente pesanti da vivere che non si vede l'ora che passino. E siccome sono pur sempre un tempo da far passare lo si vive come dilatato, per contrasto col bisogno che non duri neanche un istante. Non è il tempo che è lungo, ma l'attesa della fine dell'angoscia e della disperazione del trovarsi faccia a faccia con la propria morte.

Cosa significa non veder l'ora che gli istanti che ci separano dalla morte certa passino?

Se significa che non si vede l'ora che passino l'angoscia e la disperazione del dover morire senza scampo, può consolare pensare che di lì a poco passeranno perché la morte, cioè proprio la fonte della disperazione e della angoscia, ha vinto? Se bisogna morire perché l'angoscia e la disperazione del dover morire passino, non saranno passate invano, non era meglio, come i migliori pessimisti hanno da sempre sostenuto, "non esser mai nati"?

No, si potrebbe rispondere, perché la vita dura e quindi si può rimandare l'angoscia e la disperazione del morire finché proprio la morte non si presenta senza scampo.

Saremmo così tornati al punto di partenza: nessuno dovrebbe mai trovarsi di fronte ad una morte certa e imminente perché non avrebbe l'unica possibilità che l'uomo ha di non esser distrutto dall'angoscia di morte: rimandarla ad un futuro incerto!

Se invece non veder l'ora che angoscia e disperazione della morte passino significasse attendere la buona notizia che non moriremo più (lo Shuttle sta precipitando, gli astronauti sono angosciati di fronte alla morte imminente certa che li attende e non vedono l'ora che questo momento passi, cioè che un caso o un miracolo intervengano a dire che per il momento il pericolo è passato, che possono fare come tutte le altre volte che hanno rischiato la vita: rinviare ad un incerto futuro la necessità di morire). In tal caso angoscia e disperazione non sono passate invano, ma c'è qualcuno che ancora ne può prendere atto e godersi la rassicurazione della vita ritrovata.

In altri termini: potremmo consolarci dicendo della fine degli astronauti dello Shuttle "per fortuna che la loro angoscia è durata solo 60-90 secondi e poi non hanno più sentito niente"; oppure potremmo restare sconsolati dicendo "forse avrebbero preferito essere angosciati per più tempo e poi ritrovarsi vivi".

Supponiamo ora che qualcuno degli astronauti dello Shuttle (potrebbe essere l'israeliano se fosse consapevole della saggezza della cultura cui appartiene), nel vivere l'eternità dei 60/90 secondi di angoscia e di disperazione che la morte certa gli aveva procurato, sia stato un po' consapevole di questa differenza e abbia ragionato così: "Di fronte ad un momento del genere dovevo prima o poi trovarmi, ed è vero che mi ribello alla morte con tutte le mie forze e ciò mi angoscia e mi fa disperare, però è anche vero che in questi istanti si vive qualcosa che non si vive in nessun'altro momento della vita: il tempo sembra eterno e si capisce che si resta abissalmente lontani dalla morte anche negli ultimi istanti, perché non si può fare a meno di pensare che ci si vorrebbe svegliare vivi dalla morte per non sentirsi più angosciati e disperati".

Ecco allora che forse la condizione degli astronauti dello Shuttle (essere di fronte alla morte per l'eternità di 60/90 secondi) invece di apparirci come la più tragica delle condizioni umane (non poter rinviare la morte ad un futuro incerto), potrebbe apparirci come un esempio estremo delle possibilità dell'uomo di trascendere il suo tragico destino di mortale (poter continuare a desiderare di vivere, perché l'eternità continuerà a separarlo dalla sua morte fino all'ultimo istante).

Sapevano che dovevano morire di lì a poco ed erano angosciati e disperati, perciò non vedevano l'ora di morire per farla finita con l'angoscia e la disperazione.

Nella disperazione e nell'angoscia della morte imminente continuavano a desiderare di vivere e non vedevano l'ora di poter riacquistare qualche forma di vita per non esser più angosciati e disperati.

Sono i due possibili modi di immaginare la condizione degli astronauti dello Shuttle negli istanti precedenti la disintegrazione: basati su due diversi modi di affrontare la morte e l'elaborazione del lutto.
 
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