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Il Tristano di Wagner alla Scala

Amore e morte

Qual è la più grande storia d’amore e morte che sia mai stata raccontata? Se parliamo di storie narrate mediante la musica e il canto, mai risposta è stata più ovvia e universalmente condivisa: il Tristano e Isotta di Richard Wagner.
Il capolavoro wagneriano è stato riproposto al Teatro alla Scala di Milano nei mesi scorsi riprendendo il nuovo allestimento che aveva debuttato con grande successo come apertura della stagione 2008/2009. Gli stessi sono il direttore Daniel Baremboim, il regista e lo scenografo Patrice Chéreau e Richard Peduzzi, ed i cantanti nei ruoli principali: Waltraud Meier (Isolde), Ian Storey (Tristan), Matti Salminen (Re Marke), Gerd Grokhowski (Kurwenal); nuova invece l’interprete di Brangäne, Lioba Braun.
Sono ben note le componenti che condussero Wagner a concepire e poi a realizzare questo capolavoro, che debuttò nel 1865. Sul piano privato la tempestosa vicenda amorosa che lo unì a Mathilde Wesendonk, moglie del banchiere svizzero che aveva ospitato il compositore durante il suo esilio; sul piano filosofico lo studio dell’opera di Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, e la sua idea di fondo: la negazione della volontà di vivere, nella tragedia che è connaturata all’universo.
Ecco dunque (ricavata da leggende medievali di origine celtica) la figura della principessa irlandese Isotta ed il suo rancore per Tristano, il cavaliere che l’ha rapita e che la consegnerà allo zio, re Marke di Cornovaglia, che ne farà la sua sposa. Isotta ha deciso che un filtro di morte spegnerà entrambi, Tristano e lei stessa; ma l’ancella lo sostituisce con un filtro d’amore, e una passione devastante, incontrollabile, investe la coppia. È chiaro che per Wagner l’immagine tipicamente medievale del filtro magico non è che un mezzo per enunciare l’idea di una attrazione inconscia, inesorabile, che si accende fra due che gli eventi esteriori renderebbero “nemici”. Ma nulla più conta oramai, per loro, del mondo esterno, ed è per questo che il loro nasce come un amore impossibile, impossibile a risolversi da ultimo se non con la morte.
Nel grande duetto del secondo atto (uno dei vertici della musica di tutti i tempi) i due amanti sanno perfettamente di essere destinati a morire; anche per questo odiano la luce del giorno, simbolo della vita reale e delle sue catene, ed anelano ad una notte infinita di passioni in cui perdersi, una oscurità in cui annullarsi. E nello scioglimento tragico del terzo atto la morte sarà accolta da entrambi con una disperazione indicibilmente commista di serenità.
Saldamente riconfermato, anzi accentuato, il consenso del pubblico e della critica nei confronti di questo spettacolo, che peraltro il direttore e soprattutto il regista non hanno semplicemente ripreso, ma ristudiato ed ulteriormente perfezionato. Stupenda la direzione di Baremboim nell’unire intensità fortissima di espressione musicale e trasparenza del suono; confermata la validità visiva del livido impianto scenico di Peduzzi; sempre grande la capacità di Chéreau di impostare movimenti e gesti degli attori in modo efficace (a volte memorabile) in un lavoro drammaturgicamente difficilissimo da gestire. Anche per i cantanti va ribadito il giudizio nettamente positivo sul cast: sempre emozionante e musicalmente impeccabile l’interpretazione della Meier; intensissimo il re Marke di Salminen, cui anche quest’anno va probabilmente la palma del migliore; graditissima sorpresa, è nettamente cresciuto il tenore Storey nell’affrontare e risolvere nel migliore dei modi le difficoltà, notoriamente cospicue, del suo faticosissimo ruolo.
 
Franco Bergamasco

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