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La morte nella storia tra il Settecento e l'Ottocento

Allontanare i morti dai vivi

Per uno storico la morte è un argomento scientifico estremamente difficile, poiché non riesce mai a concludere la propria ricerca in quanto, come tutti, ne è vittima senza prima averne potuto svelare i misteri. Nonostante questo limite, è uno degli argomenti cruciali della storiografia contemporanea europea in cui rappresenta uno dei temi maggiormente trattati. Raramente viene studiata per se stessa, ma è spesso percepita come uno spazio sperimentale o un laboratorio di ricerca: è uno specchio che riflette i modi di vivere, di amare, di temere e di sentire nelle diverse epoche. Alcuni storici hanno dedicato l’intera vita per scoprirne la storia, per comprendere come era una volta e per verificare la sua evoluzione nell’immaginazione e nei rituali degli uomini.
Due storici francesi hanno bene descritto il rapporto tra l’uomo e la fine della propria vita in tutta la sua complessità. Philippe Ariès ha proposto una interessante cronologia della morte, dal periodo medievale, in cui era secondo lui addomesticata e familiare, alla prima età moderna, caratterizzata dall’arte di ben morire, fino alla morte fastidiosa, temuta, dolorosa ed espulsa, dalla seconda metà del Settecento ad oggi. Una elaborata ricerca è opera, invece, di Michel Vovelle che, nel suo volume “Morte e Occidente. Dal 1300 ai giorni nostri”, ha presentato il fenomeno da un punto di vista fisico, immaginario e sentimentale.
L’ultimo atto della nostra vita è stato oggetto di studio anche per gli storici italiani. Un’opera divenuta ormai classica è “Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento: Francia e Italia” di Alberto Tenenti. Alcuni ricercatori contemporanei si sono interessati soprattutto dell’epoca settecentesca. Ricordiamo il volume di Grazia Tomasi “Per salvare i viventi. Le origini settecentesche del cimitero extraurbano”, le ricerche di Marina Sozzi, di Giorgio Cosmacini, considerato il più autorevole storico della medicina in Italia, e di Armando Petrucci, interessato alla relazione dinamica tra la morte e la memoria attraverso i secoli.
Una questione estremamente importante riguarda il rapporto tra la morte contemporanea e il morire nel corso della storia. Oggi si muore spesso in ospedale, sommersi da una dolorosa solitudine: siamo lontani anni luce da quanto desiderava la gente ancora nell’Ottocento. Nella prospettiva storica possiamo caratterizzare la morte di oggi con gli aggettivi “sconsacrata, desacralizzata, medicalizzata, profana”.
Le origini di questo immenso passaggio, di questa trasformazione da un avvenimento strettamente religioso e spirituale a un evento fisico pieno di paura e di abbandono, si possono rintracciare, secondo Claudio Milanesi, già negli anni quaranta del Settecento. All’alba dell’Illuminismo fu la medicina a mettere in dubbio la natura della morte, trasportandola da uno spazio religioso a un ambito scientifico. Due furono gli argomenti essenziali dei medici di quell’epoca: lo status temporale della morte e la pericolosità del corpo morto per i viventi. La prima questione riguardava l’incertezza dei segni della morte e provocò la nascita della paura della morte apparente e di essere sepolti vivi; la seconda si occupava dei miasmi: i mali presenti nell’aria erano considerati la causa di ogni malattia. Nello stesso periodo nacque la “polizia medica” che qualche decennio più tardi riuscì, appoggiandosi a diversi governi europei, a far approvare riforme funerarie che hanno fortemente influenzato anche le attuali percezioni.
Per allontanare, ma in realtà per proteggere e per salvare i viventi dai morti, nasce alla fine del Settecento il cimitero extraurbano. Fino a quel periodo i morti venivano seppelliti dentro le mura, “ad sanctos et apud ecclesiam”. L’unico sepolcro accettabile per un cattolico era in stretta vicinanza alla chiesa e ai suoi martiri, di solito nella cripta. Queste tombe diventarono nel pensiero dei medici, dei chimici e di alcuni ecclesiastici, spazi pericolosi per via delle esalazioni mefitiche. I primi tentativi di allontanare i cadaveri dalle città si ebbero in Francia negli anni sessanta del Settecento. Venti anni dopo l’imperatore del Sacro Romano Impero Giuseppe II d’Asburgo-Lorena dette vita ad alcune riforme estremamente controverse. Ben nota in Austria, in Germania e in Boemia è la sua ordinanza dal 23 agosto 1784: dopo aver vietato le sepolture dentro le cripte, l’imperatore ordinò di trasferire tutti i cadaveri fuori le mura delle città. I nuovi morti dovevano essere seppelliti nudi nella “bara giuseppina”, una bara con il fondo a rovesciamento che serviva per la deporre la salma in una fossa comune per poi cospargerla con calce viva. La sepoltura nella concezione di Giuseppe d’Asburgo aveva come unico scopo la decomposizione dei corpi in tempi i più veloci possibile. Nonostante l’insuccesso delle riforme presso il pubblico, soprattutto in campagna, la morte fu così allontanata dallo spazio dei viventi.
In Italia, i nuovi regolamenti per la sepoltura e per i riti funebri arrivarono solamente nel primo decennio dell’Ottocento con l’editto napoleonico di Saint Cloud, ben noto grazie ai “Sepolcri” di Ugo Foscolo. Nacque così il campo santo, lontano non solo dalle abitazioni, ma anche dalla originale concezione di luogo pernicioso e lugubre destinato ad essere abbandonato, trasformandosi così in un giardino sentimentale, in un nuovo spazio sacro della memoria familiare e collettiva, in una galleria d’arte a cielo aperto piena dei ricordi.
 
Václav Grubhoffer
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