- n. 9 - Settembre 2009
- Psicologia
Aiutare ed aiutarsi a "rivivere"
Nessuno sembra esserselo chiesto, ma per il settore funerario può essere una domanda importante: che funerale hanno avuto i trecento morti del terremoto dell’Aquila?
I giornali hanno riferito che le bare sono state raccolte in un capannone dove alcuni psicologi accoglievano i parenti per aiutarli nel momento dell’ultimo commiato. C’è poi da immaginare che le cerimonie funebri siano state ridotte al minimo, dato che buona parte delle chiese erano crollate e che le maggiori attenzioni erano naturalmente rivolte a scavare per salvare altre vite e ad approntare rifugi d’emergenza per i sopravvissuti. Di conseguenza la personalizzazione del funerale sarà stata difficilmente attuabile, come in ogni tragedia collettiva in cui i morti sono tanti, e si sarà attenuata l’appartenenza a ciascun morente della propria morte, situazione che caratterizza i casi in cui si muore uno alla volta. Sono ipotesi plausibili, ma andrebbero verificate attraverso una inchiesta sul campo. Tuttavia esse si prestano ad una serie di considerazioni a partire dalla domanda: quali influenze può aver avuto e può continuare ad avere una tale modalità di svolgimento dei funerali sulla elaborazione del lutto per la morte dei propri cari da parte dei sopravvissuti? Dipenderà come sempre dal tipo di legame che univa ciascun morto a ciascun sopravvissuto (Francesco Campione, Il Deserto e la Speranza, Armando Editore).
Per chi aveva con il proprio caro un legame di attaccamento volto alla soddisfazione reciproca dei bisogni vitali, in una circostanza drammatica come il terremoto considerare il proprio morto come uno dei tanti sfortunati e fargli un funerale non molto “personalizzato” può essere un modo per sentirsi “come gli altri” e per potersi dedicare al più presto a ristabilire l’adattamento perduto incrementando gli attaccamenti con altri membri della famiglia o stabilendo legami di solidarietà con altri sopravvissuti. A meno che perdendo il proprio caro non si sia “perso tutto”, come nel caso di coloro che hanno perso il loro unico figlio e fanno fatica a concepire di poterlo “sostituire” attaccandosi ad altri. In questi casi il funerale “seriale” e “spersonalizzato” può essere vissuto come un “abbandono” e vi è necessità di solennizzarlo comunque, anche nelle circostanze di un terremoto, per dare ai dolenti il messaggio che si condivide l’importanza capitale che attribuivano alla vita del loro caro.
Per chi aveva con il proprio caro un legame di assimilazione a sé (cioè se era parte insostituibile di sé), come potrebbe essere il caso di uno dei ragazzi morti nel crollo del collegio universitario, la spersonalizzazione del funerale è insopportabile e bisognerebbe evitarla anche nelle circostanze drammatiche di un terremoto, per poter comunicare ai dolenti che si è d’accordo con ciò che pensano e cioè che il morto era “unico” nonostante sia morto insieme ad altri trecento. In questi casi bisognerebbe consentire modalità personalizzate del funerale che consentissero ai dolenti di iniziare ad esprimere nel modo di piangere e di disperarsi la rabbia e la colpa che solitamente accompagnano la perdita di qualcuno a cui si è uniti da un legame caratterizzato dall’insostituibilità, e che quindi non “dovrebbe morire” e se muore è sempre per colpa di qualcuno.
Per chi era legato al proprio caro come a qualcuno di cui si voleva il bene e la cui morte rappresenta il “massimo male” per lui, un solenne funerale collettivo può avere il significato di aiutare a far sì che il male che ha colpito tutti venga combattuto tutti insieme, accomunando in un unico destino degno di compassione, e perciò socializzato e non isolante, la tragedia della morte del singolo. Si tratterebbe naturalmente di un funerale di tutti e di ciascuno e non di un funerale “seriale” in cui le differenze si annullano non perché si partecipa ad un unico destino pur nella propria diversità, ma perché il “male” della morte domina a tal punto da cancellare le differenze tra gli individui.
Parecchi spunti di riflessione, come si vede, possono essere suscitati negli operatori funerari dal modo in cui si sono svolti i funerali nella tragedia del terremoto abruzzese; riflessioni che ribadiscono l’importanza di iniziare fin dalle prime fasi dell’emergenza terremoto, così come di tutte le altre emergenze cruente, a preparare il terreno più favorevole possibile per aiutare ad elaborare i lutti che ne derivano. Cosa che si può fare in collaborazione tra operatori funerari ben preparati e psicologi fin dall’organizzazione del funerale, cioè a partire da quella pratica sociale che in tutte le emergenze indica che la stessa è finita: qualcuno è già morto e per i suoi cari inizia la fase dell’elaborazione del lutto, la fase in cui bisogna aiutare ed aiutarsi a “rivivere”.
Francesco Campione