- n. 4 - Luglio/Agosto 2019
- Attualità
killfie, quando si muore per una foto
Un neologismo per indicare un fenomeno in crescita: quello dei selfie scattati in condizioni di estrema pericolosità.
Ha destato scalpore e una forte reazione da parte dei media e dell’opinione pubblica in generale, l’incidente che a fine maggio ha coinvolto due ragazzi di Reggio Emilia - Luigi Visconti e Fausto Dal Moro - mentre si recavano ad un concerto a Rovigo. Anche se tecnicamente si è trattato di un sinistro stradale da attribuire, come molti altri, ad un eccesso di velocità, c’è il fondato sospetto che il motivo che ha portato a spingere il piede sull’acceleratore fino a segnare i 220 km/h non sia stato determinato solo l’ebbrezza di infrangere i limiti consentiti dal regolamento della strada e da ogni altra norma dettata dal buonsenso, ma molto probabilmente ha inciso il fatto di poter documentare la folle impresa con il proprio smartphone e postarla in diretta su
Facebook dove in poche ore ha raggiunto le 400.000 visualizzazioni e un cospicuo numero di
like. Cosa sia successo esattamente nelle menti di Luigi e Fausto nessuno lo saprà mai, e pertanto ci asteniamo nel modo più assoluto da giudizi che risulterebbero superficiali e fuori luogo, preferendo invece rivolgere un pensiero alle famiglie e agli amici che si sono trovati ad affrontare una perdita improvvisa e traumatica.
Quello che emerge da questo fatto di cronaca, e di cui ci vogliamo occupare, è
una tendenza sempre più diffusa ad auto-immortalarsi in situazioni estreme, con conseguenze a volte fatali, tanto che
è stato coniato un nuovo termine: Killfie, il
selfie che uccide (dall’unione del verbo inglese
kill, uccidere, e dal sostantivo
selfie, che indica l’autoscatto realizzato con il telefono cellulare). C’è chi si riprende camminando sui cornicioni di palazzi ad altezze vertiginose, chi arrampicandosi sui tralicci dell’alta tensione, chi sui binari a pochi metri di distanza dal sopraggiungere del treno, chi lanciando la propria auto sulle strade di periferia a velocità da circuito di Formula1… tutte condizioni, manco a dirlo, di enorme pericolosità.
I numeri
Secondo il
Rapporto Italia 2019 dell’Eurispes, che a sua volta si rifà ad uno studio condotto in India dall’
Institute of Medical Sciences di Nuova Delhi, risulta che in 6 anni, dall’ottobre 2011 al novembre 2017,
nel mondo sono state 259 le persone decedute nel tentativo di scattarsi un
selfie “per il gusto di sperimentare un’esperienza estrema e per il piacere di rendere pubblica l’immagine di sé attraverso i social”. A questo numero accertato andrebbero eventualmente aggiunti molti altri casi passati come “normali” incidenti o suicidi e andrebbero anche considerati i feriti, spesso gravi, che se pure hanno avuto risparmiata la vita, sono comunque anch’essi vittime di questo fenomeno.
La relazione dell’Eurispes rileva che
la maggior parte delle morti da killfie è avvenuta in India, seguita da Russia, Stati Uniti e Pakistan.
Principali protagonisti, com’è facile immaginare, sono
i giovani: quelli di età compresa tra i 20 e i 29 anni rappresentano il numero più significativo di vittime (106), seguiti dagli adolescenti (76 vittime). Queste due fasce d’età costituiscono il 70,3% del totale dei decessi per un
selfie. Altre 20 vittime si contano nella fascia tra i 30 e i 39 anni, 2 tra i 50 e i 59 anni e, infine, in questa tragica lista, figurano addirittura 3 persone tra i 60 e i 69 anni. Se l’età fa una differenza sostanziale, la disparità tra i sessi è meno marcata: delle 259 vittime, 153 sono uomini, 106 sono donne.
Le cause
I 259 casi di morte sono da attribuire a 137 incidenti conseguenti al fatto di non avere calcolato bene il rischio. Incidenti che hanno visto 70 episodi di annegamento, 51 vittime investite da mezzi di trasporto (in particolare da treni in corsa) 48 cadute da grandi altezze, 48 a causa del fuoco, 16 fulminate da scariche elettriche, 11 colpite da arma da fuoco, 8 assalite da animali selvatici, ed infine 7 perite in altre diverse circostanze.
Le motivazioni
Che cosa spinge una persona a cercare deliberatamente situazioni che mettono a rischio la propria vita? È normale chiederselo, ed
è molto facile, come hanno fatto anche alcune importanti testate, liquidare questi fatti etichettandoli come un fenomeno di narcisistica stupidità. Un giudizio che certamente può sorgere spontaneo, ma che vogliamo superare per cercare di capirne un po’ di più.
Una certa dose di vanità e di autocompiacimento è connaturata all’essere umano che fin dall’antichità ha cercato di rappresentare se stesso e le sue imprese in vari modi, soprattutto attraverso la pittura. Con l’avvento della fotografia e la tecnica dell’autoscatto è stata data per la prima volta l’opportunità all’autore di essere protagonista diretto della scena. Il
selfie ha poi offerto una possibilità in più: quella della condivisione, quasi in tempo reale, con il popolo della rete. Una evoluzione epocale rispetto alle serate a casa di amici o parenti costretti a sorbirci foto, diapositive e filmini delle vacanze altrui o di noiosissimi ed interminabili matrimoni!
Il selfie è immediato, così come lo sono le reazioni innescate dalla condivisione che si esplicitano con commenti, “mi piace” e simpatiche emoticon.
Sarah Diefenbach, docente di psicologia del consumo all’Università di Monaco, nel suo studio The Selfie paradox del 2017 afferma che
“sono molte le ragioni per cui si fanno i selfie: per comunicare con le persone che si amano, per aumentare la propria autostima, per prendersi cura della propria immagine, per documentare le proprie storie e, sempre di più, per costruire il proprio personale brand”. Continua spiegando che
mettersi in mostra è un comportamento che fa parte del nostro DNA, che ci siamo evoluti come esseri sociali preoccupandoci e tenendo in grande considerazione la percezione e la considerazione che gli altri hanno di noi. In un’epoca dove l’apparire ha un valore preminente, non stupisce l’attitudine, specie tra i più giovani, di
esibire la propria immagine cercando così di colpire l’opinione pubblica e di guadagnare quel consenso che infonde un senso di sicurezza e che amplia e consolida le relazioni sociali, anche se solo virtuali.
Molti soggetti presentano una vera
dipendenza dai social network: controllare lo stato delle proprie pagine diventa un’azione quasi maniacale, la prima cosa che fanno appena svegli e l’ultima alla sera prima di dormire. Ciò è dettato dalla necessità di vedere costantemente aumentati il numero di
follower e di riscontri dal parte del popolo del web.
Postare selfie in cui si ci trova in luoghi o in contesti particolari o dove si è attori di imprese audaci, assicura un incremento di visibilità e di gradimento. Inoltre essere protagonisti di situazioni pericolose con esiti positivi, testare i propri limiti e superarli porta ad uno stato di grande euforia, a scariche di adrenalina che generano un senso di onnipotenza e ad un inarrestabile desiderio di lanciarsi in una nuova eccitante avventura.
Va comunque detto che, a dispetto di quello che si potrebbe pensare, l’autore che si vuole fotografare o filmare in una circostanza limite non sempre ha un livello di incoscienza tale da ignorare il rischio che corre.
Il più delle volte il pericolo è ben calcolato ma nel nostro cervello interviene quella che viene definita “attenzione selettiva”, un fenomeno percettivo per cui quando si è fortemente concentrati su una specifica cosa si perde la cognizione, anche se per brevissimi istanti, di altre cose che accadono intorno. Così può succedere che focalizzando l’attenzione sullo scatto non si percepisca che il treno nel frattempo si è ulteriormente avvicinato o non si faccia caso a dove si mettono i piedi.
Cosa si fa per contrastare il fenomeno?
I cosiddetti
killfie, anche se non presentano cifre da emergenza mondiale,
sono comunque un fenomeno in ascesa e sono pertanto allo studio misure per porre degli argini. Ad esempio in India, Paese che vanta il poco invidiabile primato del maggior numero di casi, sono state individuate
zone particolarmente attrattive e pericolose dove proibire la possibilità di scattarsi selfie. Analogo divieto vige in Spagna nella città di Pamplona durante la tradizionale corsa dei tori che si tiene annualmente in occasione della festa di San Firmino.
Anche la tecnologia non sta a guardare ed alcuni istituti di ricerca
stanno mettendo a punto delle applicazioni che aiutano a prevenire questi incidenti mortali, avvisando l’utente dell’imminente pericolo o disattivando la fotocamera dello smartphone se viene rilevata una situazione critica. Un traguardo certamente non facile da raggiungere e su cui si sta lavorando con un certo impegno. Forse sarebbe preferibile investire in strumenti educativi e culturali che offrano ai giovani modelli alternativi e stimoli idonei a sviluppare quella capacità critica tale da affrontare la vita e da relazionarsi socialmente in modo più equilibrato e costruttivo.
Raffaella Segantin